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Cooking the World: Ritual and Thought in Ancient India (French Studies in South Asian Culture & Society) (1989)

door Charles Malamoud

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The fifteen essays collected in this book deal with various aspects of Vedic and Brahmanic ritual. The author attempts to explore the implications of the classical Hindu definition of man: of all the animals fitted to be sacrificial victims, only man can perform sacrifices.
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> Babelio : https://www.babelio.com/livres/Malamoud-Cuire-le-monde/752269

> Zimmermann Francis. Rite et pensée dans l'Inde (note critique).
In: Annales. Économies, Sociétés, Civilisations. 46ᵉ année, N. 1, 1991. pp. 79-85. … ; (en ligne),
URL : https://www.persee.fr/doc/ahess_0395-2649_1991_num_46_1_278930
  Joop-le-philosophe | Sep 29, 2019 |
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A Catherine,
il libro che abbiamo fatto insieme
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In questo volume sono riuniti quindici saggi scritti fra il 1968 e il 1987. Alcuni di essi sono stati pubblicati in opere collettive e in periodici specificamente dedicati agli studi indologici; gli altri in riviste o in volumi destinati a un pubblico più vasto. La differenza fra questi due gruppi non risiede nella scelta dell'argomento e neppure nel linguaggio usato. Semplicemente, gli articoli più "indologici" contengono un numero maggiore di citazioni in sanscrito e di riferimenti, mentre negli articoli più divulgativi ho introdotto informazioni di base e dati utili ai lettori per i quali l'India non è un ambito familiare. In ciascun caso ho avuto l'ambizione di trattare un argomento genuinamente indiano, corrispondente a un problema o a temi esplicitamente formulati dai testi indiani, etuttavia sempre   significativi per gli antropologi e gli storici non indologi.
Tutti questi studi riguardano un medesimo campo d'indagine: l'India quale appare nei testi sanscriti: nella maggior parte dei casi, ma non esclusivamente, mi avvalgo di testi vedici (gli Inni e i Trattati del sacrificio, che sono, come è noto, la parte più antica della letteratura indiana. Non mi sono però astenuto dal mostrare in che modo alcuni aspetti della vita sociale e religiosa dell'India tradizionale di oggi possano essere chiariti alla luce di tali testi antichi.

Presentazione
Citaten
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Il titolo [...] è la traduzione che propongo per il termine sanscrito lokapakti, "cottura del mondo", traduzione letterale che credo sia la sola valida. Questa espressione, secondo me, riassume tutte le trasformazioni che la pratica dei riti e in particolare l'esecuzione del sacrificio provocano negli uomini che vi partecipano e nel mondo intorno a loro. La metafora si fonda sul fatto che la cottura reale degli alimenti è essa stessa un tipo di rito. Studio quindi il modo in cui si compie il cammino inverso e come si giunge all'idea che il rito sia una cottura. [...] mi è parso che nel pensiero dell'India brahmanica il sacrificio fosse esso stesso uno schema esplicativo (per causalità o analogia) dell'ordine del mondo, delle attività e dei progetti umani.
Il sottotitolo, Rito e pensiero, è innanzitutto un omaggio a Jean-Pierre Vernant e al suo volume Mythe et pensée chez les Grecs. Ma appunto non è il mito, bensì il rito che qui accostò al pensiero. Ora, rito e pensiero sono di per se termini antinomici. Pensare non significa infatti sbarazzarci di ciò che è stereotipato, ripetitivo, determinato in precedenza, caratteri che appartengono per eccellenza al rito? Senza dubbio, e questo vale per la cultura indiana come per qualsiasi altra. E Vernant stesso non ha rimproverato a certi storici delle religioni, in particolare della religione greca, di interessarsi soltanto alle forme del culto e di trascurare i miti? [...] Si dà il caso che in India si sia sviluppata molto presto una riflessione ampia e profonda sul rito, e che in relazione al rito la mente indiana si sia esercitata a ragionare sulle "differenze e opposizioni" (allo stesso tempo si occupava delle delle differenze e opposizioni su cui si fonda la grammatica). Il discorso brahamanico esplicito sugli dei mira soprattutto a mostrare come essi si equivalgano, si sostituiscano gli uni agli altri, si inglobino o si significhino vicendevolmente secondo le circostanze, ossia, in definitiva, secondo quanto richiedono le situazioni rituali. Con la sola notevole eccezione di Indra, gli dei hanno degli attributi piuttosto che una biografia. Ai miti, che si può immaginare costituiscano la trama essenziale della loro personalità, si fa riferimento in modo frammentario e fuggevole: negli inni vedici, perché è la regola di questo genere letterario il procedere per allusioni ed enigmi; nei Brahmana, perché ciò che tali trattati vogliono mostrare e proprio che la stabilità delle figure divine dipende dai riti ai quali esse sono legate, e che costituiscono l'abito di loro competenza.
Esiste, a rigor di termini, un pantheon brahmanico? Sì, nel senso che gli dei sono indubbiamente molteplici e che ciascuno di essi  è inserito in una rete di relazioni con gli altri. Ma questo pantheon non ha la coesione familiare e rassicurante che al pantheon greco e' conferita dall'antropomorfismo dei suoi dei [...] Gli dei del brahmanesimo sono in numero i terminato, variabile secondo il punto di vista assunto. Non hanno una vera e propria genealogia e la loro identità e' troppo labile per essere contenuta in un qualche sistema di parentela. I miti propri ai singoli dei sono invasi dalla vegetazione dei quasi-miti, narrazioni la cui funzione e' quella di giustificare il nome di questa divinità oppure di mostrare come un certo gruppo di dei o l'insieme degli dei siano pervenuti alla condizione che ne fa i destinatari di una certa offerta. [...] L'epopea, i Purana, i testi dell'Induismo settario hanno dei molto più classicamente mitologico; ma anche nelle narrazioni di largo respiro di cui sono gli eroi, le differenze e le opposizioni fra i singoli dei che formano il pantheon sono secondarie rispetto alle speculazioni sui diversi aspetti e livelli di realtà di una stessa potenza divina.
Al contrario, nei testi indiani che parlano di riti - i quali sono assai numerosi ed eterogenei - si nota la volontà di mettere ordine nella massa degli atti da compiere, dei materiali da manipolare, delle parole da pronunciare. I più Sciutti tra essi, i Kalpasutra, aggiungono ai loro elenchi di prescrizioni definizioni e metà regole, e stabiliscono criteri classificazione. Altri testi, i Brahmana, sviluppano la loro riflessione in maniera meno didattica e omogenea, ma in modo da far emergere queste domande: da che cosa e costituito un rito? Quali sono gli elementi che lo compongono? Sforzando si di capire la catena delle sequenze rituali, gli autori vedici e le scuole dei ritualisti che li commentano sono portati a costruire paradigmi, ma anche a isolare le categorie semantiche del continuo e del discontinuo; della ,ripetizione e della differenza; del "principale" e del "resto"; del perituro e del permanente; dell'immediato e del differito; del pieno e del vuoto; dell'implicito e del manifesto: categorie universali ma che hanno in India la particolarità di essere state pensate in relazione all'atto sacrificale. Alcuni filosofi indiani si sono interrogati sui presupposti linguistici e la portata metafisica del "si deve" di cui l'obbligo rituale è la forma tipica. Parimenti, il desiderio di rendere conto di quanto accade nel sacrificio conduce gli autori vedici a interrogarsi sugli dei, destinatari dell'offerta, sul loro linguaggio, il loro corpo; sul legame politico che li unisce quando si associano per combattere gli Asura, a immagine dell'associazione costituita dagli uomini quando insieme i apprendono l'esecuzione di uno stesso sacrificio. Si parla degli dei per arricchire e illustrare ciò che si ha da dire sui riti, e il rito comincia a produrre una mitologia propria: il sacrificio stesso e i diversi elementi che lo costituiscono sono personificati, divengono eroi di narrazioni che hanno forma di mito.
È dunque degno di nota, ma per nulla sorprendente, che in relazione al rito l'India formuli l'opposizione anch'essa classica tra vita attiva e vita contemplativa, che coincide in parte con l'opposizione tra villaggio e foresta: la vita attiva è dedicarsi ai riti; la vita contemplativa è distaccarsene, interiorizzarli in modo tale che non siano più veri e propri atti.
Infine, è nel linguaggio del rito che il Veda dà la seguente definizione dell'uomo (da confrontare e mettere in contrapposizione con quella di Aristotele: l'uomo, animale politico): "Fra tutti gli animali idonei a essere vittime sacrificali l'uomo è l'unico che sia anche idoneo a fare sacrifici". Frase ricca della sua stessa ambiguità: evidentemente, è l'uomo come specie a poter assumere entrambi i ruoli. Il,singolo  uomo è o l'uno o l'altro, a meno che non faccia del suo sacrificio un suicidio, cosa che di certo non è la regola. Tuttavia, se si vogliono cogliere tutte le implicazioni di questo modo di caratterizzare l'uomo, occorre tenere presente che, anche quando la sua azione sacrificale riguarda un oggetto esterni, c'è sempre un momento in cui, secondo la dottrina brahmanica, il sacrificante stesso si fa oblazione. In questa frase e nell'intreccio che essa implica fra riflessività e relazione con un altro se stesso, è condensata un'antropologia: questi studi si sforzano di esplicitarla.
Lo svadhyaya è la recitazione solitaria, "tre se e se", del testo vedico. Questa recitazione costituisce la parte essenziale di uno dei riti quotidiani obbligatori, il brahmayajna.
Colui che recita lo svadhyaya è il medico di se stesso, dice il commento di Sayana, perché le medicine come le piante, ecc., curano soltanto le malattie del ventre e della testa, ecc., mentre l'uomo accorto evita con lo svadhyaya quel dolore dell' atmanche è la morte reiterata, punarmrtyu.
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Gangbare DDC/MDS
Canonieke LCC

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The fifteen essays collected in this book deal with various aspects of Vedic and Brahmanic ritual. The author attempts to explore the implications of the classical Hindu definition of man: of all the animals fitted to be sacrificial victims, only man can perform sacrifices.

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