Lasciando agli esperti il giudizio su di un testo che, seppur divulgativo, è sufficientemente tecnico da spiazzare il lettore non competente, è evidente che sia stato scritto per un pubblico statunitense e che per esso esamini la storia economica alla luce delle recenti criticità. Possiamo dire che sia genericamente un'ode al libero mercato, che vive di sana competizione, più che un manifesto ideologicamente capitalista. Possiamo tirare un sospiro di sollievo insieme all'autore: abbandonate le velleità rivoluzionarie anticapitaliste sembra evidente dall’atteggiamento dell’economista che il capitalismo sia un buon sistema economico - a fronte di nessun altro esistente, almeno il migliore a disposizione. Anche le conclusioni sono condivisibili: la corruzione e il clientelismo più spinti hanno fatto degenerare quei principi di competizione economica che spingono alla realizzazione di migliori condizioni di vita per tutti. E proprio su questo punto dobbiamo abbandonare l’autore per sferrare la nostra critica più severa: in tutto il volume non si parla di profitti, di avidità, di quella potente (sana o meno) spinta all’accaparramento e accumulazione - propensioni che sono alla base del successo inarrestabile del capitalismo. Sono le indomite, ancestrali necessità materiali di protezione e potere a dirigere e decretare il successo di questo sistema. Che portano però inevitabilmente allo sfruttamento, alla sottomissione delle forze produttive. Come dimenticarsi di queste ancora irrisolte nefaste conseguenze?